In precedenti post si è già analizzato, da un lato, come il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza abbia introdotto obblighi per le imprese di dotarsi di adeguati assetti organizzativi idonei a prevenire e segnalare la crisi delle stesse o peggio la perdita della continuità aziendale e di come tra gli indicatori di bilancio da adottare il principale sia il patrimonio netto negativo; dall’altro come il legislatore, per far fronte all’emergenza pandemica, abbia introdotto il congelamento delle perdite 2020, con la possibilità di derogare alle fattispecie previste dal Codice Civile agli art. 2446-2447 e 2482bis-2482ter, fino all’approvazione del bilancio 2025.
Il patrimonio netto ha sempre costituito un valore di rilievo nelle misurazioni della performance aziendale per il suo significato intrinseco e per l’immediatezza della sua lettura e percezione, ma il Decreto Liquidità che ha introdotto questa deroga, pur modificata dalla legge di bilancio 2021 che ha posto rimedio ad un vuoto normativo su cosa sarebbe successo dopo il 2020, disponendo un congruo tempo per ripianare le perdite, cioè come si è detto fino all’approvazione del bilancio 2025, appare comunque un po’ vago nella sua applicazione pratica anche in funzione dell’entrata in vigore, dal 1° di settembre 2021, del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Esso infatti prevede precisi obblighi a carico degli organi di controllo societari che, in caso di inerzia dell’organo amministrativo sui segnali di crisi, devono darne comunicazione ai competenti Organismi di Composizione della Crisi d’Impresa (OCRI).
Oltre al suddetto scarso raccordo tra le due norme che qualche dubbio interpretativo pone sul piano formale, giova sottolineare che anche sul piano sostanziale qualche problema lo scatenerà.
Non c’è dubbio che quando un’impresa chiude in perdita non genera cassa e quindi potrebbe, a seconda dei volumi del risultato negativo, iniziare ad avere problemi di liquidità che il legislatore per il 2020 concede di potervi far fronte anche dopo un lustro con il rischio di aggravare la situazione finanziaria. Tutto ciò in aperto contrasto con la ratio del codice della crisi che punta a far emergere (e risolvere) prima possibile eventuali problemi di crisi proprio per non farli sfociare nella perdita di continuità aziendale.
E cosa dire poi delle eventuali responsabilità dell’organo amministrativo che non sollecita i soci a ricapitalizzare ma anzi propone agli stessi di optare per la deroga e poi nel frattempo incorre nel default dell’azienda? Avrebbe dovuto prevedere l’insorgere dell’insolvenza e non usufruire della deroga?
Il rischio d’impresa non può trasferirsi dall’imprenditore ai terzi perché viola un principio fondamentale che regola l’andamento dell’economia per cui sarebbe auspicabile il ricorso alla deroga solo dopo un’approfondita analisi che confermi che la perdita è il frutto esclusivo della pandemia e che ci sia analogia di risultati nello stesso settore merceologico; che le previsioni 2021 siano di segno diametralmente opposto in grado di generare flussi di cassa positivi tali da compensare quelli negativi del 2020; che comunque i soci manifestino la disponibilità a ricapitalizzare qualora ce ne fosse bisogno senza aspettare la tempistica della deroga.
Senza questi presupposti l’organo amministrativo e quello di controllo potrebbero andare incontro a serie implicazioni giuridiche in caso di default dell’impresa.
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